«Promuovere il diritto al piacere, difendere la centralità del cibo e il suo giusto valore»: questa la mission di Slow Food. È sulla base di tale obbiettivo che la condotta locale Slow Food Magna Grecia Metapontum inaugura una rubrica settimanale, un viaggio tra il cibo, la tradizione e la cultura lucana, seguendo il filo rosso della nostra storia.
Nel decimo appuntamento: il Paddaccio, il formaggio dimenticato del Parco Nazionale del Pollino.
LA STORIA
Siamo nel Parco Nazionale del Pollino, la più grande area protetta italiana a cavallo tra Basilicata e Calabria, sito patrimonio mondiale dal 2015. È qui, alle falde del massiccio montuoso, in particolare tra i comuni di Rotonda, Viggianello e Terranova di Pollino, in provincia di Potenza, che nasce il Padraccio, formaggio ovicaprino più conosciuto con il termine dialettale “Paddaccio”, nome direttamente legato alla forma sferica o ovoidale del latticino, “a padda“, a palla, appunto.
Questo formaggio fresco a pasta molle, che figura tra l’altro tra le tante eccellenze lucane inserite nell’Arca del Gusto Slow Food, era anticamente utilizzato dai pastori come merce di scambio: per ricambiare un favore ricevuto, avviare una pratica o, più semplicemente come dono.
Le metodiche di lavorazione consolidate nel tempo secondo le regole tradizionali, assieme al forte legame del prodotto stesso con il territorio e la sua storia, hanno portato al Paddaccio il riconoscimento del marchio PAT (Prodotti Agroalimentari Tradizionali): una produzione di nicchia riguardante un’area geografica limitata, caratterizzata inoltre da un’offerta tendenzialmente stagionale (il periodo di produzione di questo particolare formaggio si estende infatti per soli quattro mesi, da giugno a settembre) non hanno reso possibile il lancio del prodotto nei grandi circuiti di distribuzione, tanto che fuori dal territorio di produzione se ne ignora quasi l’esistenza, ma ne hanno preservato, al contempo, l’autentica qualità.
LA PRODUZIONE
Latte crudo di capre e pecore al pascolo, riscaldato in marmitte di rame stagnato su fuoco a legna, a una temperatura intorno ai 90°. Addizionato con caglio di capretto o agnello quando la temperatura scende intono ai 35°, e poi il breve riposo di circa una mezz’ora. Questo il processo iniziale che precede l’energica rottura della cagliata con un bastone di legno, detto ruotolo, fino ad ottenere dei granelli delle dimensioni di chicchi di riso. Quindi il trasferimento del formaggio in un cestino di vimini e le successive manipolazioni al fine di conferire la caratteristica forma ovoidale, il cui diametro varia dai 10 ai 25 cm, con un peso intorno ai 0,3-0,5 kg. Ne risulta un formaggio dal colore bianco avorio, tendente al grigio, senza crosta e con una leggera rugosità sulla superficie, dalla pasta estremamente morbida ed elastica, leggermente untuoso al tatto, cremoso e con piacevoli note acidule al gusto. Pronto al consumo subito dopo la salatura.
Proprio la freschezza, caratteristica principale del Paddaccio, e dunque la facile deperibilità, ne limita la produzione, rendendolo un prodotto destinato alla commercializzazione locale.
Può essere degustato da solo o con verdure di stagione assieme a del pane casereccio. Eventualmente accompagnato con del vino bianco.
Simona Pellegrini