«Promuovere il diritto al piacere, difendere la centralità del cibo e il suo giusto valore»: questa la mission di Slow Food. È sulla base di tale obbiettivo che la condotta locale Slow Food Magna Grecia Metapontum inaugura una rubrica settimanale, un viaggio tra il cibo, la tradizione e la cultura lucana, seguendo il filo rosso della nostra storia.
Nel dodicesimo appuntamento vi parliamo del Casieddu, il formaggio PAT di Moliterno.
LA STORIA E IL TERRITORIO
Arroccato attorno al castello medioevale che domina la valle sottostante scopriamo Moliterno, quattromila abitanti circa in provincia di Potenza a 876 m s.l.m., e una storia millenaria da raccontare. Tutto ha inizio con la distruzione, operata dai saraceni tra l’872 e il 975, di Grumentum, città di fondazione romana; segue la dominazione normanna, cui si deve l’edificazione dell’imponente castello; e poi gli svevi, gli angioini e gli aragonesi: un passato intenso che nella sedimentazione di secoli e secoli di storia lascia a Moliterno un’importante quanto indiscutibile eredità culturale.
Oltre alla storia propria del luogo, suscita particolare interesse e curiosità il toponimo stesso di questo piccolo comune lucano: sempre in riferimento alle origini storiche infatti, una facile etimologia farebbe risalire il nome di Moliterno dal suo castello, e più specificatamente dalla sua torre merlata, che si suppone, fosse stata detta, “Moles aeterna“. Volendo attenersi ad altre fonti, invece, il nome deriverebbe da “Moli-termos“, luogo appena caldo, in riferimento al clima mite del posto. In ultimo, lo storico Giacomo Racioppi, ricollega l’origine del nome al termine latino mulctrum, da mulgere (mungere), che combinato con il suffisso ernum (luogo), va a formare mulct-ernum: “luogo dove si munge e si coagula il latte”. Tutto ciò al fine di testimoniare l’importante quanto antichissima tradizione pastorale di questo centro lucano, ed il considerevole fattore economico che l’allevamento, principalmente ovino, ha sempre ricoperto tra queste montagne.
Ed è proprio dalle radici etimologiche di questo paese antichissimo, che vuole prendere avvio la narrazione di uno dei tanti prodotti di qualità che la gastronomia locale ha da offrire. Oltre al ben conosciuto e rinomato Canestrato, è possibile trovare in questa terra di pastori un’altra preziosa quanto rara tipicità: vi parliamo del Casieddu di Moliterno.
IL CASIEDDU DI MOLITERNO
È in questo piccolo comune della provincia di Potenza, compreso nel più giovane dei parchi nazionali italiani, quello dell’Appennino lucano e Lagonegrese, che da secoli i pastori della Val d’Agri, durante i soli mesi che vanno da luglio a settembre, mescolano il latte caprino di due mungiture e, dopo averlo filtrato con foglie di felce, lo pongono nel caccavo, una caldaia di rame stagnato, per portarlo a una temperatura di circa 90°C. È a questo punto che entra in gioco la “nepeta“, nome scientifico Calamintha Nepeta Savi, un’erba aromatica appartenente alla famiglia delle Labiate, che aggiunta al latte conferirà al prodotto finale profumi e sapori unici. Quando la temperatura del latte scende fino ai 38°C viene immesso il caglio di capretto: una volta raggiunta la consistenza ideale, la cagliata viene tagliata energicamente a chicchi di riso con l’ausilio dello scuopolo, un bastone di legno recante una protuberanza all’apice. Dopo alcuni minuti di riposo la pasta viene estratta e modellata a piccole sfere dal diametro di 10-13 cm circa, che verranno poi confezionate in foglie di felci legate alle estremità con steli di ginestra. Queste le antichissime tecnologie di lavorazione che portano alla realizzazione finale di uno dei tanti magnifici prodotti lucani presenti all’interno dell’Arca del Gusto Slow Food, e facente parte, tra l’altro, dell’elenco PAT (Prodotti agroalimentari tradizionali italiani).
Questo, in definitiva, il Casieddu di Moliterno, letteralmente “piccolo formaggio”. Un latticino a pasta molle o semidura: senza crosta, nel primo caso, di colore bianco se fresco, o con crosta grigio/gialla se sottoposto a una breve stagionatura di una sessantina di giorni circa. Una piccola produzione di eccellenza gastronomica che per lungo tempo ha rischiato di andare perduta sotto i colpi dell’agricoltura e dell’allevamento industriale, della crescente omologazione che interessa, nostro malgrado, anche l’ambito alimentare. Una pratica di sostenibilità, che abbraccia non solo il lavoro dell’uomo ma anche il benessere animale, per ottenere un prodotto di qualità, buono, pulito e giusto. Un prodotto che merita di essere difeso e raccontato, non solo come rievocazione di un lontano passato, ma in vista di una tanto ideale quanto possibile visione futura che punti alla conservazione del territorio e alla sua più ampia rivalutazione, senza doverlo necessariamente snaturare, sottolineandone, invece, le elementari vocazioni su cui è possibile, ancora una volta, sulla base di una visione organica e strutturata, tornare a scommettere e puntare.
Simona Pellegrini