«Promuovere il diritto al piacere, difendere la centralità del cibo e il suo giusto valore»: questa la mission di Slow Food. È sulla base di tale obbiettivo che la condotta locale Slow Food Magna Grecia Metapontum inaugura una rubrica settimanale, un viaggio tra il cibo, la tradizione e la cultura lucana, seguendo il filo rosso della nostra storia.
Nel diciassettesimo appuntamento con la Rubrica settimanale di Slow Food Magna Grecia vi raccontiamo la soppressata di Rivello, un percorso storico e identitario lungo trecento anni.
LA SOPRESSATA NELLA STORIA DI RIVELLO
Come abbiamo ripetuto più volte nel corso di questo nostro viaggio tra le prelibatezze lucane, il cibo può essere considerato a tutti gli effetti un elemento culturale. A testimonianza di ciò il fatto che, pur essendo onnivoro, l’uomo non si nutre degli stessi cibi in tutte le culture. Ogni cultura ha, infatti, un proprio codice di condotta alimentare, condizionato da diversi fattori, siano essi ambientali, economici, storici o nutrizionali. Se, dunque, si evita di considerare i casi in cui è la sussistenza a dettare l’agenda alimentare, il cibo cessa di essere semplicemente un bisogno fisiologico e diviene una necessità culturale. Necessità che influenza in maniera tanto casuale quanto consequenziale l’identità di un dato popolo, iscrivendosi nel percorso storico intrapreso dallo stesso. Niente di più vero in Italia, il Paese dei mille campanili, dove ogni borgo o comune ha una storia a sé da raccontare, tutt’uno, nella maggior parte dei casi, con il patrimonio gastronomico di quella zona, evidenziando una generale ricchezza, culturale e storica, invidiabile ai più.
Questo inscindibile rapporto tra storia e cibo è riscontrabile, in maniera assai evidente a Rivello, piccolo centro medioevale in provincia di Potenza, poco meno di tremila anime a 479 m s.l.m. È qui che si produce da almeno tre secoli una soppressata che, per qualità e metodi di produzione, si distingue dai tanti insaccati similari diffusi in tutta la parte meridionale della penisola. Ad avvalorare non solo l’ancestrale presenza sul territorio di questa squisitezza, ma anche la lunghissima tradizione culinaria tutta rivellese, un atto datato 1719, la Restituta libertas, rogito di cessione attraverso il quale Rivello riscattò la propria libertà, divenendo città libera, dall’ultimo feudatario Pinelli. Una libertà acquistata al costo di 55mila ducati e una certa quantità di salumi artigianali «Cantare quattro (poco meno di 400 kg) di salumi di ogni bontà e perfezione, mercantibili e ricettibili […] secondo come si fanno in detta terra di Rivello, da consegnarsi nel mese di marzo di ciascun anno (dopo la tradizionale uccisione del maiale che avveniva alla fine del mese di dicembre o inizio del mese di gennaio), libere da spese di trasporto e di qualunque altra gabella».
Quasi ottant’anni dopo è un altro documento, questa volta il Dizionario geografico-ragionato del Regno di Napoli, a riscontrare come a Rivello sia molto attiva quella che viene definita come una vera e propria industria del maiale: « […] il territorio è atto in parte alla semina del grano e parte alla piantagione delle vigne. Non manca il lavoro del pascolo degli animali e vi si fa molta industria del maiale che vive allo stato semi brado». A riconferma dell’importanza di tale mercato il fatto che lo stesso addetto al pascolo dei suini, il magister porcarius, era quello a riscuotere, tra i vari servi, il più alto salario.
Accanto agli scritti, le testimonianza artistiche, ancora più antiche e di certo, più suggestive, dei precedenti. Occorre, per questo, fare un ulteriore salto indietro per giungere al 1559, quando Giovanni Todisco, celebre pittore lucano originario di Abriola, affresca una parete dell’ex refettorio del Convento di Sant’Antonio a Rivello, rappresentando una magnifica Ultima Cena, distante dalle raffigurazioni canoniche dell’epoca, sia per la sfarzosità dell’ambiente rappresentato, sia per una presenza maggiore di personaggi rispetto al solito, il Todisco immortala nel dipinto, infatti, anche Ettore Pignatelli, all’epoca feudatario di Rivello nonché committente dell’affresco,assieme alla moglie, nell’atto di ospitare in casa loro gli eccezionali ospiti. Ma ciò che maggiormente ci interessa sono le tante pietanze tipiche della zona presenti sulla tavola: dal famoso biscotto ad otto al coniglio ripieno, e ancora fave, castagne, noci, e granchi, un alimento consueto dei tempi, sino ad un salume posto sul tagliere, dalla tipica forma schiacciata.
E ancora, al 1616 risale il coro ligneo in stile barocco della Chiesa di Sant’Antonio, realizzato in legno di noce da Girolamo da Stigliano. I pannelli scolpiti riproducono scene caratteristiche delle attività tipiche del tempo, la cosiddetta allegoria dei mestieri, tra queste vi è la rappresentazione del porcaro che seziona il maiale appena ucciso, a conferma di come già nel ‘600 a Rivello fosse significativa tale pratica.
Ecco perché dietro il racconto di un cibo non vi è mai solo il cibo stesso, e la soppressata di Rivello ne è un esempio. Oggi presente all’interno dell’Arca del Gusto Slow Food, questo insaccato ha ottenuto anche il riconoscimento come prodotto PAT, un prodotto tipico italiano radicato al territorio di produzione e che eredita dallo stesso caratteristiche particolari che lo rendono unico e impossibile da replicare altrove.
LA PRODUZIONE
Carne proveniente da razze locali allevate all’aperto e alimentate in maniera del tutto naturale con ghiande, castagne, grano, orzo, zucche e fichi. La produzione si concentra in inverno, tanto che il mese di Gennaio viene detto “il tempo del salame”; è proprio la gestione del freddo, infatti, una caratteristica imprescindibile: la necessità del freddo durante tutte le fasi della produzione, dalla macellazione, alla scelta delle carni fino alla miscelazione degli ingredienti, erano e sono la garanzia per ottenere un salume prelibato e sano evitando la presenza di contaminazioni batteriche. Utilizzati solo tagli di prima scelta, filetti e muscoli della coscia. La carne viene a questo punto tagliata a mano, a “punta di coltello”, fino a ridurla ad un impasto omogeneo, per aggiungere successivamente una minima quantità di cubetti di lardo, sale e pepe nero in grani. L’impasto così ottenuto viene insaccato nell’intestino del maiale, si provvede poi alla legatura delle due punte estreme dell’intestino e alla successiva pungitura con la forchetta. L’insaccato viene quindi legato con dello spago e disposto su un piano per la pressatura, da qui il nome soperzata e la caratteristica forma appiattita che ne deriva. Segue una leggera affumicatura. Viene poi lasciato curare, ovvero stagionare in ambienti ad una temperatura tra i 10-18°C ed al buio, per un periodo compreso fra le tre e le dodici settimane; solo trascorso questo tempo sarà possibile la conservazione, in vasi di terracotta utilizzando la stessa sugna di maiale o in vasi di vetro con olio di oliva. Terminato il periodo di stagionatura la soppressata pesa tra i 200 e i 300 grammi. La fetta si presenta al taglio di un bel colore rosso vivo, l’aroma è fragrante e speziato al contempo, il sapore è delicato e dolce.
L’odierna produzione è molto limitata e a carattere strettamente familiare e artigianale, ecco perché risulta ancora più importante raccontare questo prodotto al fine di conservarne e diffonderne la conoscenza, con l’intento non solo di salvaguardare l’esistenza dello stesso, ma la storia e l’identità della terra in cui esso è nato.
Simona Pellegrini