La Commissione europea ieri ha approvato il cosiddetto “pacchetto Ucraina”, le cui due principali misure sono: 500 milioni di aiuti diretti agli agricoltori più colpiti dalla guerra; la possibilità di sbloccare 4 milioni di ettari di terreni messi a riposo permanente per coltivare materie prime di urgente necessità come mais, grano e soia. Per l’Italia ciò dovrebbe tradursi in aiuti per 48 milioni di euro (con un massimale di 35mila euro per azienda) e 200.000 ettari da sbloccare per la coltivazione. Le imprese agricole italiane devono affrontare maggiori costi stimati in 9 miliardi di euro. Quale efficacia possono avere i 48 milioni dell’UE, che dovrebbero arrivare al massimo a 150-200 milioni con il finanziamento nazionale?
Quanto alla nuova PAC e alla Farm to Fork, la loro attuazione viene solo rimandata di un anno.Su questo però vale la pena fare una riflessione.
Punto primo. L’agricoltura italiana può aumentare a piacimento la propria produzione agricola fino a coprire il fabbisogno in moltissimi comparti. E la superficie calcolata per lo sblocco va ben oltre i 200.000 ettari previsti, visto che al Sud c’è una quantità di terreni messi a riposo e, soprattutto, abbandonati almeno di tre volte superiore, come ho già evidenziato in una mia interrogazione
(http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/18/Sindisp/0/1341182/index.html).
Ma questo recupero dei terreni può avvenire solo a condizione che il prezzo pagato agli agricoltori dalla trasformazione industriale sia almeno pari ai costi di produzione. Altrimenti nessun agricoltore avrebbe l’interesse a rimettersi nei campi, nonostante il recepimento delle norme comunitarie sulle pratiche sleali. Custodi del territorio sì, benefattori a fondo perduto no.
Secondo punto. Tutto questo non si può fare certo dall’oggi al domani, crederlo sarebbe un’offesa all’intelligenza di chi conosce i meccanismi dell’agricoltura. Deve essere il frutto di una chiara scelta di politica agricola, che va oltre l’emergenza della crisi. Altrimenti è solo fumo negli occhi.
E qui arriviamo al terzo punto. Non basta riempirsi la bocca di riorganizzare le filiere, che nel libero mercato rappresentano solo una piccola fetta (nonostante i generosi aiuti che ricevono). Bisogna ripensare profondamente la PAC. Un ripensamento che non deve andare a svantaggio degli agricoltori. In fondo, essa è nata proprio per garantire il reddito dei produttori e una vita dignitosa alle popolazioni rurali, oltreché l’approvvigionamento di cibo.
La nuova PAC, dunque, deve servire quantomeno come meccanismo di compensazione delle perdite che subiranno le aziende a causa della transizione agroecologica.
L’unica vera soluzione è un aumento reale (e non speculativo) dei prezzi, che devono essere congrui e parametrati alla situazione concreta delle aziende agricole: insomma che vi sia remunerazione adeguata per chi i beni necessari al nostro sostentamento li produce. In agricoltura va superato il paradosso per cui i prezzi li decidono gli acquirenti e non i venditori. Paradosso che dovrebbe essere risolto attraverso la trasparenza delle Commissioni uniche nazionali.